La professione più rosa, la professione più bella. Grazie e Auguri!

Le relazioni pubblica e la comunicazione d’impresa sono una professione che sta diventando sempre più rosa. Si dice da anni e lo possiamo concretamente sperimentare ogni giorno.

Negli Stati Uniti addirittura, ci segnalava la nostra collega e direttrice del Public Relations Museum di New York, Shelley Spector (qui l’International Ferpi Talk dedicato a Inclusion & diversity), la questione della diversità di genere è aperta: non ci sono ormai più maschi che pratichino le relazioni pubbliche. Nei team, ai corsi e nelle agenzie praticamente sono tutte donne.

Ed effettivamente questa testimonianza che ci portava Shelley, corrisponde anche alla mia esperienza internazionale a livello internazionale, dove mi sono sempre trovato in team di comunicazione composti al 90% da donne. Ho sempre avuto come capi donne. C’è un motivo legato alla capacità di comunicare, alla capacità di gestire le relazioni, alla capacità di creare contenuti? Non lo so, credo di sì, ma andrebbe discusso. Ne abbiamo parlato anche con Silvia Arto (Global Alliance for PR) e Carola Salvato (GWPR Italy), ma non trovo il video (l’articolo Ferpi).

Tuttavia c’è una costante, anche negli States, che ci segnalava Shelley e che emergeva anche dal Talk con Carola e Silvia: spesso gli stipendi sono più bassi, spesso i capi sono uomini, soprattutto in struttura in cui vengano inglobati i Public Affairs e in agenzie di grandi dimensioni. Per questo c’è ancora strada da fare, ma in questo percorso siamo con voi. Grazie alle colleghe per aver reso migliore questa professione e auguri!

Remote/ Smart Working: l’insostituibile necessità della comunicazione interna

Articolo di Roberto Ravagnani (partner di key2people) su Il SOle 24 Ore di giovedì 18 febbraio 2021

Quello che erroneamente è stato spesso definito smart working è il più delle volte remote working, lavoro in remoto. Non è una questione meramente lessicale, ma di senso: smart tradotto in agile alle nostre latitudini, significa sgamato, furbo, intelligente ed ha quindi una connotazione positiva che lo contrappone alla vecchia modalità di fare qualcosa, in questo caso di lavorare.

Quando parliamo di lavoro in remoto e basta, senza tutta una serie di infrastrutture software e hardware che lo rendano smart, parliamo semplicemente di una diversa dislocazione fisica del lavoro che comporta tutta una serie di svantaggi.

Ci sono alcune infrastrutture che sono indispensabili per rendere smart il remote: oltre ad un organizzazione del lavoro differente, ai device e ai software necessari, la cultura aziendale, manageriale e di leadership da un lato, la comunicazione interna e le dimensioni di engagement dall’altro. Quando una di queste è carente o assente non parliamo di smart ma di remote.

Nell’interessante articolo del Sole (di Roberto Ravagnani di key2people) che ho ritagliato e postato, la modalità di lavoro smart viene accusata di ridurre la capacità d’innovazione. L’ho letto e son certo che l’autore si riferisca alla modalità remote, secondo la mia accezione. In questo caso non possiamo che dirci d’accordo: una modalità di lavoro totalmente in remoto preclude una serie di riti, attività, abitudini, fondamentali ad alimentare le relazioni, il dialogo e quindi anche la creazione di innovazione e la connessione delle intelligenze.

Il tema che mi sta molto a cuore dal punto di vista del comunicatore è l’assoluta insostituibile rilevanza che assume la comunicazione interna e la necessità che la cultura organizzativo-manageriale (aziendale e di leadership) si connoti sempre di più come comunicativa. L’organizzazione comunicativa è in grado di offrire ai suoi membri i necessari spazi di ascolto, dialogo e relazione. Questa significa anche che come comunicatori dobbiamo stimolare continuamente nei manager e nei loro collaboratori una cultura di comunicazione offrendo loro contenuti, strumenti e piattaforme di base. Ma significa anche che dobbiamo delegare e rinunciare ad una parte delle attività di comunicazione, eventualmente limitandoci a offrire linee guide e counseling.

Un passaggio che a volte non è semplice (perché significa lasciare ad altri aree che vorremmo presidiare) ma è necessario per stimolare lo sviluppo e la trasformazione in organizzazione comunicativa.

Infine ogni organizzazione complessa che voglia valorizzare lo smart working dovrà potenziare la funzione di comunicazione interna .

#FuoriCorso – Talk x studenti d comunicazione d’impresa

A partire da domani e, spero, tutti i giovedì una room di ClubHouse con gli studenti del corso di Comunicazione d’Impresa e alcuni professionisti della comunicazione e delle relazioni pubbliche.

Una chiacchierata di venti minuti sui temi di attualità della comunicazione.

Giovedì mattina alle 8,30
https://www.joinclubhouse.com/event/xnaNZJrw

Una comunicazione responsabile alla guida del Paese? Yes, please!

Credo sia utile riflettere anche su temi di comunicazione rispetto al nuovo governo. Dopo anni di bolle, spin, hype, storytelling più o meno veritiero, che hanno contribuito a minare la fiducia nelle istituzioni, forse è arrivato il momento in cui finalmente vedremo da parte del governo una comunicazione misurata e trasparente, sobria e motivante, in una parola responsabile.

Lo stile del Primo Ministro incaricato è questo (sobrio e responsabile), o perlomeno è stato questo in tutti questi anni alla guida di BCE e Banca d’Italia. Credo che tutti i professionisti si aspettino plausibilmente che anche la comunicazione di Palazzo Chigi possa andare in questa direzione. Sobrietà e responsabilità.

Ciò non significa sminuire la funzione e l’impatto che la comunicazione ha nel costruire reputazione, alimentare fiducia e ingaggiare/motivare i propri stakeholder. Anzi. Basti pensare a quanto fondamentale sia stata proprio la comunicazione nel mandato dell’ex Presidente della BCE: esempio più chiaro del discorso del 26 luglio 2012 non c’è, passato alla storia per lo statement “whatever it takes”.

Spesso, anche tra noi professionisti, c’è la tendenza a scambiare abilità e singole trovate da spin doctor per capacità professionale. In realtà negli ultimi anni come spiega magistralmente Pomerantz nel saggio Questa non è propaganda (leggi intervista su Fanpage) il consenso si crea e si distrugge rapidamente proprio creando nuvole di fumo, pseudoverità e censura tramite il rumore. L’antidoto al caos informativo, secondo me, sta nella capacità dei leader di proporre un altro modo di comunicare e di ascoltare le comunità: una comunicazione responsabile.

“Within our mandate, the ECB is ready to do whatever it takes to preserve the euro. And believe me, it will be enough”

Mario Draghi, 26 luglio 2012 [leggi qui l’intero discorso]

Davanti a noi, accanto alla ricostruzione economica, c’è anche una ricostruzione simbolica e narrativa, che può contribuire a far recuperare fiducia nelle istituzioni. Ad essere sinceri le organizzazioni del profit e del non profit in questi anni hanno dimostrato da questo punto di vista una grande maturità; meno ne abbiamo vista quando si trattava di cercare consenso (a livello nazionale, regionale, locale) o di aumentare audience e vendere giornali.

Siamo passati dall’hate speech al reality show, passando per il tifo da stadio. Credo che oggi come comunicatori abbiamo il dovere di ricostruire i modi di relazionarsi della comunità nazionale, ancora dilaniata dall’incapacità di dialogare, di ascoltarsi e di comunicare. Spesso con gli studenti del mio corso di Comunicazione d’Impresa a Scienze della Comunicazione, mi trovo in imbarazzo perché ciò che racconto rispetto all’ascolto, alla responsabilità, alla deontologia, alla misurazione, alla costruzione della reputazione, alla stessa efficacia dei processi di relazioni pubbliche, viene esemplarmente disatteso dalla comunicazione politica e pubblica, che sono spesso quelle più evidenti e visibili.

I prossimi mesi – senza rinunciare a presentare punti divista differenti e critiche – possono rappresentare un’opportunità non solo per l’economia ma anche per una ecologia dell’informazione e della comunicazione pubblica e politica.

Fiducia in calo per le fonti di informazione: crollano media tradizionali e owned media

Bella infografica di DataMedia Hub che evidenzia bene i dati dell’Edelman Trust Barometer Italia [scarica qui] sulla fiducia nei confronti dei media tradizionali.

L’infografica di DataMedia Hub che evidenzia il crollo della fiducia nei media tradizionali.

Oltre ai media tradizionali però cala la fiducia nei motori di ricerca e nei social media, mentre crollano negli owned media. Questa davvero una brutta notizia per chi si occupa di comunicazione di impresa. I contenuti veicolati tramite media relations e i propri profili/siti/house organ aziendali rischiano di diventare sempre meno creduti e credibili (il calo dal 2019 è comune a tutti gli ambiti).

Occorre interrogarsi su questo calo perché è evidente quanto ciò incida sugli outcome dei nostri sforzi

Infografica di Edelman Trust Barometer 2021 sulla fiducia degli italiani nelle fonti di informazione

Ricostruire e riprogettare le comunità: luoghi, persone, geografie. Un compito anche per i comunicatori e i professionisti delle relazioni?

Ora che ci avviciniamo ad avere un governo serio e che stiamo per entrare nel vivo di un vero e proprio piano di ricostruzione con i fondi di Next Generation EU, occorre che finalmente si possa dibattere dei contenuti.

Occorre che si possa fare un vero dibattito pubblico, che possano esprimersi i gruppi di interesse, che possano dare il loro punto di vista gli esperti, che i progettisti del futuro possano presentare all’opinione pubblica le loro idee.

Le priorità le conosciamo:

1. scuola-università-formazione,

2. economia-industria-occupazione,

3. sanità-salute-welfare

Trasversale a tutti questi temi è qualcosa che ancora non affiora. La necessità di ricostruire insieme al Paese i cento-mille paesi d’Italia. Occorre riprogettare le comunità e i loro luoghi. La pandemia ha accelerato il processo di distanziamento sociale (quello vero che disgrega le comunità) e delocalizzazione: le persone lavorano e studiano da remoto, la spesa ce la portano a casa i corrieri, i pranzi e le cene sono da asporto, le relazioni passano attraverso cellulari/zoom/conferenced call, i mega-uffici verranno abbandonati, il lavoro a distanza ci riporta in casa. Stiamo attenti a non scambiare per temporaneo un processo che già era profondamente radicato nelle trasformazioni sociali e tecnologiche in corso.

L’utilizzo di connessioni a distanza e il lavoro in remoto presentano vantaggi innegabili: impatto ecologico minore, meno schizofrenia negli spostamenti, meno inquinamento, meno traffico, più bilanciamento vita privata e lavoro, più vicinanza a casa, ecc.

Ma tutto ciò comporta una serie di rischi che non hanno a che fare solo con la minor frequenza delle relazioni, che tutti riteniamo di poter recuperare abbastanza in fretta. La delocalizzazione e l’atomizzazione significa anche la spinta definitiva a smembrare le comunità locali, i centri storici, le identità territoriali, che già prima erano in avanzato stato di decomposizione. Non possiamo pensare che resistano solo luoghi e borghi con brand forti a livello di marketing territoriale, perché appealing dal punto di vista turistico o enogastronomico. Sarebbe un errore enorme. Uccideremmo il senso del luogo e di comunità, scambiando il luogo per il brand territoriale, il capitale sociale per lo stile di vita.

Forse possiamo ripensare lo stare insieme nelle comunità e per farlo occorrerà progettare uno specifico investimento sul capitale sociale delle comunità locali. Saranno i comunicatori – relatori pubblici davvero capaci di farsi tessitori sociali (cfr. TMF https://www.ferpi.it/news/sussidarieta-e-territorio-il-ruolo-del-tessitore-sociale) e di dare un contributo significativo? Io lo spero e mi ci impegnerò, molti altri tra noi anche. Ma è evidente che riuscire a riprogettare il futuro delle comunità è un compito molto ambizioso: prima di tutto va riconosciuto come prioritario e quindi occorrerà coinvolgere segmenti molto ampi di terzo settore, pubblica amministrazione, organizzazioni del profit, soggetti attivi nell’educazione e formazione. E forse nel nostro ruolo di professionisti della relazione e della comunicazione dovremmo anzitutto stimolare un dibattito in questo senso, facendone percepire l’urgenza e la necessità.

Per consolidare la resilienza delle comunità, per ricostruire le società nei luoghi in cui vivono, per riprogettare lo stare insieme, dobbiamo cominciare a discuterne e parlarne proprio oggi che siamo distanziati socialmente e che quindi ce ne rendiamo conto ancora meglio. La pandemia è stata un grande acceleratore di processi già in corso: sfruttiamola per disegnare un futuro diverso per coniugare comunità locali e territori. Per farlo dovremo utilizzare una disciplina oggi assai poco di moda, ma fondamentale per capire il mondo. La geografia, le geografie.

Lo specchio deformato

Dagospia, unica vera bussola

Appena finita l’università, durante un colloquio di selezione, un lobbista piuttosto noto ancora oggi, mi disse che cercava qualcuno che dopo aver letto le prime pagine dei giornaloni (Sole, Corriere e Repubblica, e forse qualcun altro più giornalino) fosse in grado di capire cosa accadeva realmente in Italia a livello politico, quali messaggi incrociati si lanciavano i vari gruppi di potere e quali fossero le issue rilevanti per i clienti.

Mi è sempre rimasta impressa quella frase e spesso è riaffiorata. Ho sempre cercato di capire come girassero le cose, spesso prendendo abbagli clamorosi, per mia incapacità interpretativa.

Diversi anni più tardi, nell’ufficio romano di un collega trovai invece una copia di Cafonal. Gli «italioni» nel mirino di «Dagospia» e chiaccierando mi disse che se volevo capire come andavano le cose a Roma Dagospia era l’unica fonte utile.

Da allora non passa giorno che non visiti (più volte) dagospia, che anche in questa crisi si sta dimostrando – al di là del bene e del male – l’unica fonte in grado di offrire spunti di lettura utili a comprendere. probabilmente anche grazie alla distanza che l’ironia e la satira riescono a stabilire tra la cronaca e la sua interpretazione. Dall’inizio di questa crisi di governo non c’è stato giornale che non abbia raccontato gli eventi, in funzione di una ben precisa, partigiana e parziale presa di posizione. Mentre è normale che ogni testata racconti il proprio punto di vista a beneficio dei propri lettori, è quasi aberrante che si distorca la cronaca per trasformare la realtà e indirizzare le scelte stesse dei politici. Ed è quello che questa volta è accaduto su tutte le testate (giornaloni e giornalini) originando uno specchio deformato della realtà. E infatti nessuno è riuscito a capire cosa stesse succedendo: né tra i lettori né tra gli opinionisti. Ormai ci rimangono poche bussole, a volte Il Foglio, Phastidio (grazie Tonio) e Dagospia.

Forse non è caso che i giornali vengano letti sempre meno.

Per la cronaca quel lobbista preferiva laureati in legge. Infatti scelse l’altro (forse l’altra) candidato.

Reputazione e Fiducia del Pharma al tempo dei vaccini… e della variante italiana

Nel 2020 il comparto farmaceutico ha segnato un importante miglioramento della reputazione in Italia (cfr. https://www.sanita24.ilsole24ore.com/art/imprese-e-mercato/2020-10-14/pharma-reptrak-2020-cresce-reputazione-farmaceutiche-132920.php?uuid=ADUUi2v&refresh_ce=1) e nel resto del mondo.

Questo almeno è quanto riportava il Pharma RepTrak comparando i risultati con le scarse performance degli anni precedenti a livello mondiale (cfr. https://www.reptrak.com/blog/pharma-reputations-struggle-to-keep-up-with-other-industries-podcast/).

Le grandi aspettative che le case farmaceutiche hanno alimentato per rispondere all’emergenza COVID-19 spiegano in parte questo successo:

Anzitutto c’è stato l’impressionante dispiegamento di forze e la capacità di mettere in pipeline decine di progetti per lo sviluppo di vaccini da parte di tante aziende; in secondo luogo, tanti sforzi per individuare farmaci in grado di rispondere al COVID-19.

Tuttavia già dall’anno scorso hanno cominciato a insinuarsi nel discorso pubblico, sui social media e nei media tradizionali, velenosi semi/memi: dalle sballate teorie cospirazioniste che vedono nelle farmaceutiche l’origine del virus stesso, alle altrettanto assurde teorie che vedono il solito manipolo di plutocrati (Gates/Soros/ecc) alla guida di un complotto contro l’umanità; fino ad arrivare alla chiacchiera più diffusa della Big Pharma assetata di soldi o dei vaccini poco sicuri, alimentate spesso da certo opinionismo piuttosto fantasioso.

Dopo l’arrivo dei primi vaccini e delle vaccinazioni (in tempi record), abbiamo potuto anche leggere delle difficoltà che esistono: completezza dei dossier, affidabilità dei dati, tempi di produzione, ecc. Parliamo di farmaci biologici, che hanno necessità di lunghe lavorazioni, decine (se non centinaia) controlli di qualità, modalità di conservazioni particolari, ecc.

Però i ritardi di cui si parla tanto in questi giorni nelle consegne, vengono strumentalizzati dalla politica per trovare un facile capro espiatorio di tutti gli altri problemi. Che ha già facilmente attecchito se si osservano le conversazioni online di questi ultimi giorni.

Nessuno conosce i termini dei contratti tra società farmaceutiche e Unione Europea. L’unica cosa che conosciamo sono le aspettative che la classe politica aveva creato (https://www.adnkronos.com/covid-speranza-13-milioni-di-italiani-vaccinati-entro-fine-marzo_U0ldHAi3BZykemnR6XVhg?refresh_ce).

Ora c’è chi ‘vagheggia’ (vaccheggia) di togliere licenze, far produrre a società di stato o addirittura nazionalizzare determinate produzioni strategiche (cosa poi). Pensiamo all’Italia: non esisteva un piano pandemico aggiornato, non c’erano le mascherine chirurgiche nelle strutture, le scuole superiori sono state chiuse da ottobre 2020 per problemi legati ai trasporti non ancora risolti, i morti aumentano a dismisura di giorno in giorno, Regioni e Governo centrale animano ogni giorno una rissa continua su ogni questione sanitaria, l’economia è al collasso in vari settori, siamo addirittura in una crisi di governo che non si sa come andrà a finire… E c’è chi scrive che lo Stato dovrebbe produrre con sue aziende i vaccini: un’idea così assurda che basterebbe pensare a ciò che è avvenuto in Lombardia zona arancione/gialla (chiusa per giorni perché erano sbagliati i dati… provocando danni a catena) per capire che meno lo mano pubblica interviene in economia e meglio è (per non parlare di Alitalia, Ilva e altri piccoli esempi di malagestio).

Detto questo, non sarà un anno facile per la reputazione dell’industria farmaceutica. In termini di crisis management non solo per chi si occupa di vaccini, ma per l’intero settore, si tratterà di affrontare una variante italiana, incontrollabile ormai da tempo e purtroppo molto influente: la politica stessa che non sa più che nemico individuare. O meglio che pesci pigliare.

Le aziende farmaceutiche sono abituate a gestire le aspettative dei pazienti rispetto al loro bene più prezioso: la salute. E – pur con qualche eccezione – credo che negli ultimi anni si siano guadagnate la fiducia di chi ci ha avuto a che fare. Non sarà semplice gestire strumentalizzazioni e attacchi propagandistici, ma tutti noi che lavoriamo nel settore dobbiamo provarci a farlo con serietà e responsabilità. In particolare noi comunicatori.

Social media e democrazia: quali sono i confini?

Libertà di parola e incitazione alla violenza, difesa della democrazia e censura: la cronaca di quanto accaduto lo scorso 6 gennaio negli USA ha messo in luce come il confine tra concetti opposti fra loro si sia fatto sempre più labile. Un tema che riguarda tutti come cittadini e che tocca da vicino il lavoro dei professionisti della comunicazione.

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In questi giorni, in seguito agli eventi di Capitol Hill e alla conseguente censura (presunta o meno) di Twitter e Facebook nei confronti di Trump è divampato sui media il dibattito sul potere delle piattaforme social e le contromisure che le democrazie mature dovrebbero cominciare perlomeno a definire.

Zuckerberg in un post ha spiegato i motivi della decisione presa da Facebook verso Donald Trump invocando il tema della priorità per la sicurezza pubblica. Twitter intanto ha riattivato l’account, dopo averlo sospeso e dopo averne cancellato alcuni tweet.

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