Ricostruire e riprogettare le comunità: luoghi, persone, geografie. Un compito anche per i comunicatori e i professionisti delle relazioni?

Ora che ci avviciniamo ad avere un governo serio e che stiamo per entrare nel vivo di un vero e proprio piano di ricostruzione con i fondi di Next Generation EU, occorre che finalmente si possa dibattere dei contenuti.

Occorre che si possa fare un vero dibattito pubblico, che possano esprimersi i gruppi di interesse, che possano dare il loro punto di vista gli esperti, che i progettisti del futuro possano presentare all’opinione pubblica le loro idee.

Le priorità le conosciamo:

1. scuola-università-formazione,

2. economia-industria-occupazione,

3. sanità-salute-welfare

Trasversale a tutti questi temi è qualcosa che ancora non affiora. La necessità di ricostruire insieme al Paese i cento-mille paesi d’Italia. Occorre riprogettare le comunità e i loro luoghi. La pandemia ha accelerato il processo di distanziamento sociale (quello vero che disgrega le comunità) e delocalizzazione: le persone lavorano e studiano da remoto, la spesa ce la portano a casa i corrieri, i pranzi e le cene sono da asporto, le relazioni passano attraverso cellulari/zoom/conferenced call, i mega-uffici verranno abbandonati, il lavoro a distanza ci riporta in casa. Stiamo attenti a non scambiare per temporaneo un processo che già era profondamente radicato nelle trasformazioni sociali e tecnologiche in corso.

L’utilizzo di connessioni a distanza e il lavoro in remoto presentano vantaggi innegabili: impatto ecologico minore, meno schizofrenia negli spostamenti, meno inquinamento, meno traffico, più bilanciamento vita privata e lavoro, più vicinanza a casa, ecc.

Ma tutto ciò comporta una serie di rischi che non hanno a che fare solo con la minor frequenza delle relazioni, che tutti riteniamo di poter recuperare abbastanza in fretta. La delocalizzazione e l’atomizzazione significa anche la spinta definitiva a smembrare le comunità locali, i centri storici, le identità territoriali, che già prima erano in avanzato stato di decomposizione. Non possiamo pensare che resistano solo luoghi e borghi con brand forti a livello di marketing territoriale, perché appealing dal punto di vista turistico o enogastronomico. Sarebbe un errore enorme. Uccideremmo il senso del luogo e di comunità, scambiando il luogo per il brand territoriale, il capitale sociale per lo stile di vita.

Forse possiamo ripensare lo stare insieme nelle comunità e per farlo occorrerà progettare uno specifico investimento sul capitale sociale delle comunità locali. Saranno i comunicatori – relatori pubblici davvero capaci di farsi tessitori sociali (cfr. TMF https://www.ferpi.it/news/sussidarieta-e-territorio-il-ruolo-del-tessitore-sociale) e di dare un contributo significativo? Io lo spero e mi ci impegnerò, molti altri tra noi anche. Ma è evidente che riuscire a riprogettare il futuro delle comunità è un compito molto ambizioso: prima di tutto va riconosciuto come prioritario e quindi occorrerà coinvolgere segmenti molto ampi di terzo settore, pubblica amministrazione, organizzazioni del profit, soggetti attivi nell’educazione e formazione. E forse nel nostro ruolo di professionisti della relazione e della comunicazione dovremmo anzitutto stimolare un dibattito in questo senso, facendone percepire l’urgenza e la necessità.

Per consolidare la resilienza delle comunità, per ricostruire le società nei luoghi in cui vivono, per riprogettare lo stare insieme, dobbiamo cominciare a discuterne e parlarne proprio oggi che siamo distanziati socialmente e che quindi ce ne rendiamo conto ancora meglio. La pandemia è stata un grande acceleratore di processi già in corso: sfruttiamola per disegnare un futuro diverso per coniugare comunità locali e territori. Per farlo dovremo utilizzare una disciplina oggi assai poco di moda, ma fondamentale per capire il mondo. La geografia, le geografie.

Lo specchio deformato

Dagospia, unica vera bussola

Appena finita l’università, durante un colloquio di selezione, un lobbista piuttosto noto ancora oggi, mi disse che cercava qualcuno che dopo aver letto le prime pagine dei giornaloni (Sole, Corriere e Repubblica, e forse qualcun altro più giornalino) fosse in grado di capire cosa accadeva realmente in Italia a livello politico, quali messaggi incrociati si lanciavano i vari gruppi di potere e quali fossero le issue rilevanti per i clienti.

Mi è sempre rimasta impressa quella frase e spesso è riaffiorata. Ho sempre cercato di capire come girassero le cose, spesso prendendo abbagli clamorosi, per mia incapacità interpretativa.

Diversi anni più tardi, nell’ufficio romano di un collega trovai invece una copia di Cafonal. Gli «italioni» nel mirino di «Dagospia» e chiaccierando mi disse che se volevo capire come andavano le cose a Roma Dagospia era l’unica fonte utile.

Da allora non passa giorno che non visiti (più volte) dagospia, che anche in questa crisi si sta dimostrando – al di là del bene e del male – l’unica fonte in grado di offrire spunti di lettura utili a comprendere. probabilmente anche grazie alla distanza che l’ironia e la satira riescono a stabilire tra la cronaca e la sua interpretazione. Dall’inizio di questa crisi di governo non c’è stato giornale che non abbia raccontato gli eventi, in funzione di una ben precisa, partigiana e parziale presa di posizione. Mentre è normale che ogni testata racconti il proprio punto di vista a beneficio dei propri lettori, è quasi aberrante che si distorca la cronaca per trasformare la realtà e indirizzare le scelte stesse dei politici. Ed è quello che questa volta è accaduto su tutte le testate (giornaloni e giornalini) originando uno specchio deformato della realtà. E infatti nessuno è riuscito a capire cosa stesse succedendo: né tra i lettori né tra gli opinionisti. Ormai ci rimangono poche bussole, a volte Il Foglio, Phastidio (grazie Tonio) e Dagospia.

Forse non è caso che i giornali vengano letti sempre meno.

Per la cronaca quel lobbista preferiva laureati in legge. Infatti scelse l’altro (forse l’altra) candidato.

Reputazione e Fiducia del Pharma al tempo dei vaccini… e della variante italiana

Nel 2020 il comparto farmaceutico ha segnato un importante miglioramento della reputazione in Italia (cfr. https://www.sanita24.ilsole24ore.com/art/imprese-e-mercato/2020-10-14/pharma-reptrak-2020-cresce-reputazione-farmaceutiche-132920.php?uuid=ADUUi2v&refresh_ce=1) e nel resto del mondo.

Questo almeno è quanto riportava il Pharma RepTrak comparando i risultati con le scarse performance degli anni precedenti a livello mondiale (cfr. https://www.reptrak.com/blog/pharma-reputations-struggle-to-keep-up-with-other-industries-podcast/).

Le grandi aspettative che le case farmaceutiche hanno alimentato per rispondere all’emergenza COVID-19 spiegano in parte questo successo:

Anzitutto c’è stato l’impressionante dispiegamento di forze e la capacità di mettere in pipeline decine di progetti per lo sviluppo di vaccini da parte di tante aziende; in secondo luogo, tanti sforzi per individuare farmaci in grado di rispondere al COVID-19.

Tuttavia già dall’anno scorso hanno cominciato a insinuarsi nel discorso pubblico, sui social media e nei media tradizionali, velenosi semi/memi: dalle sballate teorie cospirazioniste che vedono nelle farmaceutiche l’origine del virus stesso, alle altrettanto assurde teorie che vedono il solito manipolo di plutocrati (Gates/Soros/ecc) alla guida di un complotto contro l’umanità; fino ad arrivare alla chiacchiera più diffusa della Big Pharma assetata di soldi o dei vaccini poco sicuri, alimentate spesso da certo opinionismo piuttosto fantasioso.

Dopo l’arrivo dei primi vaccini e delle vaccinazioni (in tempi record), abbiamo potuto anche leggere delle difficoltà che esistono: completezza dei dossier, affidabilità dei dati, tempi di produzione, ecc. Parliamo di farmaci biologici, che hanno necessità di lunghe lavorazioni, decine (se non centinaia) controlli di qualità, modalità di conservazioni particolari, ecc.

Però i ritardi di cui si parla tanto in questi giorni nelle consegne, vengono strumentalizzati dalla politica per trovare un facile capro espiatorio di tutti gli altri problemi. Che ha già facilmente attecchito se si osservano le conversazioni online di questi ultimi giorni.

Nessuno conosce i termini dei contratti tra società farmaceutiche e Unione Europea. L’unica cosa che conosciamo sono le aspettative che la classe politica aveva creato (https://www.adnkronos.com/covid-speranza-13-milioni-di-italiani-vaccinati-entro-fine-marzo_U0ldHAi3BZykemnR6XVhg?refresh_ce).

Ora c’è chi ‘vagheggia’ (vaccheggia) di togliere licenze, far produrre a società di stato o addirittura nazionalizzare determinate produzioni strategiche (cosa poi). Pensiamo all’Italia: non esisteva un piano pandemico aggiornato, non c’erano le mascherine chirurgiche nelle strutture, le scuole superiori sono state chiuse da ottobre 2020 per problemi legati ai trasporti non ancora risolti, i morti aumentano a dismisura di giorno in giorno, Regioni e Governo centrale animano ogni giorno una rissa continua su ogni questione sanitaria, l’economia è al collasso in vari settori, siamo addirittura in una crisi di governo che non si sa come andrà a finire… E c’è chi scrive che lo Stato dovrebbe produrre con sue aziende i vaccini: un’idea così assurda che basterebbe pensare a ciò che è avvenuto in Lombardia zona arancione/gialla (chiusa per giorni perché erano sbagliati i dati… provocando danni a catena) per capire che meno lo mano pubblica interviene in economia e meglio è (per non parlare di Alitalia, Ilva e altri piccoli esempi di malagestio).

Detto questo, non sarà un anno facile per la reputazione dell’industria farmaceutica. In termini di crisis management non solo per chi si occupa di vaccini, ma per l’intero settore, si tratterà di affrontare una variante italiana, incontrollabile ormai da tempo e purtroppo molto influente: la politica stessa che non sa più che nemico individuare. O meglio che pesci pigliare.

Le aziende farmaceutiche sono abituate a gestire le aspettative dei pazienti rispetto al loro bene più prezioso: la salute. E – pur con qualche eccezione – credo che negli ultimi anni si siano guadagnate la fiducia di chi ci ha avuto a che fare. Non sarà semplice gestire strumentalizzazioni e attacchi propagandistici, ma tutti noi che lavoriamo nel settore dobbiamo provarci a farlo con serietà e responsabilità. In particolare noi comunicatori.

Social media e democrazia: quali sono i confini?

Libertà di parola e incitazione alla violenza, difesa della democrazia e censura: la cronaca di quanto accaduto lo scorso 6 gennaio negli USA ha messo in luce come il confine tra concetti opposti fra loro si sia fatto sempre più labile. Un tema che riguarda tutti come cittadini e che tocca da vicino il lavoro dei professionisti della comunicazione.

/media/post/4dvqhpb/0kV-ChKM4_PAYBnhPcuzjG.jpg

In questi giorni, in seguito agli eventi di Capitol Hill e alla conseguente censura (presunta o meno) di Twitter e Facebook nei confronti di Trump è divampato sui media il dibattito sul potere delle piattaforme social e le contromisure che le democrazie mature dovrebbero cominciare perlomeno a definire.

Zuckerberg in un post ha spiegato i motivi della decisione presa da Facebook verso Donald Trump invocando il tema della priorità per la sicurezza pubblica. Twitter intanto ha riattivato l’account, dopo averlo sospeso e dopo averne cancellato alcuni tweet.

continua su Ferpi.it

Presentato il Global PR and Communication Model 2021

/media/post/pp4sdsq/obiettivo.png

Global Alliance for Public Relations and Communication Management e il Corporate Excellence – Centre for Reputation Leadership hanno presentato martedì scorso il nuovo Global PR and Communication Model 2021, un nuovo modo per guidare il lavoro o per i professionisti delle relazioni pubbliche e della comunicazione in tutto il mondo.

Il modello è strutturato attorno a cinque Building Blocks strategici che generano e proteggono valore nel mondo di oggi: lo scopo aziendale (corporate purpose); il marchio (brand) e la cultura aziendale; la reputazione e i rischi reputazionali; la comunicazione; la connected intelligence e le metriche degli asset intangibili. Questi elementi costitutivi consentono alle organizzazioni di ottenere la differenziazione, il coinvolgimento, la difesa, la fiducia e la legittimità sociale di cui hanno bisogno ora per mantenere la loro licenza di operare.

“Con gli sforzi collaborativi e partecipativi di una rete di 1.400 professionisti in cinque diverse regioni, questa è stata una ricerca, basata sul consenso, del ruolo globale presente e futuro e del valore delle relazioni pubbliche e della gestione delle comunicazioni. Il nucleo della forza delle nostre professioni è la nostra capacità di costruire relazioni, che ci connettono ovunque nel mondo “, ha affermato Justin Green, Presidente di Global Alliance.

“Il mondo sta attraversando un periodo di completa trasformazione a causa della nuova economia immateriale e avevamo bisogno di una nuova direzione, tenendo in considerazione prioritariamente la reputazione e gli asset immateriali”, ha dichiarato Ángel Alloza, CEO Corporate Excellence e Academic Research Director di Global Alliance. Secondo Alloza, che ha guidato il progetto, la ricerca e il rapporto, insieme a Clara Fontán e al team di Corporate Excellence, “il Modello è una roadmap pratica per aiutare le organizzazioni ei professionisti a raggiungere i loro risultati più importanti e rilevanti per operare in ogni mercato nel 21° secolo: raggiungere una differenziazione duratura, costruire una solida reputazione e consolidare la fiducia con gli stakeholder, il che significa in fin dei conti ampliare la propria licenza di operare ”.

“Sviluppando questo modello, che è un’evoluzione del Melbourne Mandate la Global Alliance sta portando avanti la sua missione: creare standard globali per elevare la nostra professione”, ha dichiarato José Manuel Velasco, Immediate Past Chair e leader del comitato direttivo del progetto. “Il Modello guarda al futuro della nostra funzione offrendo un solido razionale al coinvolgimento del responsabile comunicazione nella C-Suite di qualsiasi tipo di organizzazione”, ha aggiunto.

Il Modello consolida anche gli Accordi di Stoccolma (2010) e il Melbourne Mandate (2012) e integra il Global Capability Framework sviluppato in collaborazione con la Huddersfield University nel 2018.

Il Modello mira a consentire alle organizzazioni e ai professionisti di tutto il mondo di migliorare la propria leadership e il processo decisionale aziendale, promuovendo al contempo una connessione reale e autentica con i propri stakeholder per il mondo post-COVID-19. Il progetto presentato oggi ha il supporto di LLYC, la principale società di Relazioni Pubbliche in Spagna e America Latina. 

Il rapporto completo e il riepilogo esecutivo del modello globale di comunicazione e PR sono disponibili qui.  

(pubblicato su Ferpi.it il 16 dicembre 2020)

Fare Lobby dopo il COVID. Il parere di Fabio Bistoncini

Interessante intervista di Fabio Bistoncini su http://www.Formiche.net:

Da marzo in poi, con la pandemia, com’è cambiato il vostro lavoro?

È cambiato moltissimo, soprattutto per via di quattro variabili. La prima è rappresentata dall’accentramento a Palazzo Chigi del processo decisionale. Per la prima volta si è avuto questo utilizzo massiccio dei Dpcm. Non voglio entrare nel merito della questione giuridica, personalmente lo giustifico vista l’emergenza che stiamo vivendo. Però, a differenza del decreto legge che viene emanato dal Presidente della Repubblica e che poi deve essere convertito dal Parlamento, nel caso dei Dpcm siamo di fronte a un’assunzione di responsabilità del presidente del Consiglio che esclude anche i ministri. Questo è stato il primo aspetto che ha impattato il nostro lavoro.

E le regioni?

Infatti, accanto alla concentrazione del potere in capo a pochi sono notevolmente aumentate le misure demandate alle regioni, che poi costituiscono il vero elemento di confusione di questa seconda fase dell’emergenza: significa che come gruppo di interessi ti devi interfacciare non solo con il governo ma anche con i decisori regionali. Da questo punto di vista c’è una complessità in più, tipica del nostro sistema, che ancora non ha deciso se virare decisamente verso il regionalismo oppure se riassorbire al centro alcune competenze.

Cos’altro?

L’impossibilità di incontrarsi ha inciso fortemente sull’attività lobbistica: trasferire le istanze dei gruppi di interesse ai decisori, al di là dell’incontro, ha imposto la trasformazione digitale di tutte le organizzazioni. Anche la politica non sempre era preparata, ma mi pare che le cose, dopo un’inevitabile assestamento, abbiano funzionato.

L’ultima variabile?

Il fatto che soprattutto all’inizio il decisore si sia affidato ai classici corpi intermedi – le associazioni datoriali e quelle sindacali in particolare – fino ad arrivare all’apoteosi degli Stati generali dello scorso giugno. Ma è chiaro che quello rappresenta un modo di fare che non regge più: la società è troppo complessa e tutti gli interessi non possono essere riassunti in un numero più o meno ristretto di soggetti intermedi. Gli interessi della società sono molti di più.

È in libreria il primo numero di Relazioni

Il 14 ottobre è uscito il primo numero di Relazioni, un nuovo progetto editoriale di Luca Sossella editore. Un progetto per stimolare il pensiero e la crescita di chi crede che le relazioni siano una risorsa personale, sociale ed economica la cui gestione può favorire la nascita di una società più giusta ed equilibrata.

Il primo numero intitolato “Gli Stati Uniti, domani”: approfondimenti, analisi, pensieri, immagini e visioni verso (e oltre) le elezioni americane. Con un’intervista a Noam Chomsky e interventi di Derrick de Kerckhove, Simone Pieranni, Franco Berardi Bifo, Alberto Abruzzese, Aldo Bonomi, oltre a una nutrita truppa di professionisti e studiosi della comunicazione e delle relazioni pubbliche.

Continua

Noi, Tessitori Sociali

Il Key Note speech di Toni Muzi Falconi al Salone della CSR e dellì’Innovazione Sociale 2020, focalizzato su Sussidiarietà, Capitale Sociale e sul ruolo dei relatori pubblici come Tessitori Sociali.

Ringrazio TMF per la citazione, mi permetto di aggiungere ai menzionati anche Massimo Alesii che ha ispirato la Task Force Ferpi in Emilia, con il suo esempio ed analisi post-terremoto de L’Aquila 2009, e tutto il lavoro su Disastri Naturali e Comunicazione Responsabile che poi sono sfociati nella Carta di Rieti.

Persone. Non (solo) Vettori

Oggi ascoltavo su BBC World Service (sia benedetta la Dab radio) l’intervista a un’epidemiologa di Harvard, che ha detto una sacrosanta verità che in questi mesi comunicatori pubblici, governanti e opinionisti televisivi spesso hanno dimenticato.

Durante una crisi di sanità pubblica spesso accade che la comunicazione e i provvedimenti stessi si focalizzino sui cittadini come potenziali vettori di malattia, dimenticando che sono persone con “unmet needs” da soddisfare.

Banale considerazione, ma fondamentale se vogliamo rifocalizzare le campagne di comunicazione non solo sul contenuto in sé, ma sulle persone e sui loro bisogni. Bisogni sociali, materiali, psicologici e di salute.

Ho avuto l’impressione che molte organizzazioni private (aziende, ONG, organizzazioni del terzo settore) e diverse aziende del farmaceutico, siano ben riuscite a focalizzarsi sulla persona, con un adeguato ascolto e puntando l’attenzione sulla relazione con i propri stakeholder (interni/esterni).

Non ho avuto la stessa impressione da parte dell’ente pubblico che a parte aver spostato in smart working e svuotato gli uffici, agendo quindi positivamente verso i propri dipendenti, ha un po’ abbandonato l’ottica del servizio al cittadino, pubblicando tanti contenuti in maniera top-down, ma tralasciando completamente la relazione: penso alla scuola, alla motorizzazione civile con cui ho avuto a che fare di recente (0 risposte a email, telefonate, visite in sedi) ed ai Comuni.